Il revisionismo dell'era De Laurentiis è nato morto
L'idea che la storia la scrivano i vincenti è anacronistica. Un postulato che ha avuto ragione di esistere almeno fino a quando i conflitti si risolvevano con l'annientamento totale, culturale e fisico, dell'avversario. Già dai tempi dell'impero romano è possibile, infatti, reperire testimonianze di chi le guerre le ha perse. Documenti utili a ricostruire le origini di tante battaglie e, in alcuni casi, a ristabilirne l'impatto sul futuro.
Quello della consapevolezza storica è un processo che non può appartenere in nessun modo alle generazioni che vivono il durante. Ad esempio, pensare che un uomo, la sera del 14 luglio del 1789, sia tornato a casa e abbia detto alla moglie: "Sai cara, c'erano persone che stavano assalendo il carcere della Bastiglia. Credo che sia iniziata la Rivoluzione Francese" è un'ipotesi decisamente inverosimile.
Un altro fenomeno interessante è quello del revisionismo. Accade quando gli sconfitti, dopo diverse generazioni, riescono a riacquisire uno status di potere economico e sociale che supera quello degli allora vincitori e, sfruttando eventi anche episodici, provano a riscrivere il corso della storia a proprio uso e consumo.
In pratica è un tentativo di appiattire il dibattito sull'attualità e sul presente di ogni narrazione e riflessione sul passato e, spesso, è messo in atto da parte dei media che si rivolgono a un pubblico di massa. Esattamente quello che è accaduto al racconto attorno al club di Aurelio De Laurentiis.
La stagione delle illusioni e delle rivincite
Una stagione tremendamente sbagliata - contro diciotto tremendamente indovinate - è bastata per fare il funerale al Napoli. E a una gestione che d'improvviso è stata bollata come inadeguata. Anzi, finita.
Si è andati persino sul personale. È accaduto alla conferenza stampa di "scuse" di febbraio, con la baronia polverosa del giornalismo sportivo napoletano bramosa di rinfacciare al patron che il limite di questo Napoli avesse origine nel suo insopportabile carattere.
Credevano di aver fatto scacco matto. Invece, ancora, una volta, non hanno toccato palla.
La possibilità che un'annata così avesse rappresentato un incidente di percorso non è stata messa agli atti dall'accusa. Più comodo divulgare il concetto che l'incidente fosse, piuttosto, il primo storico scudetto senza l'aiuto metafisico di Diego Armando Maradona.
Un tentativo goffo e maldestro di legittimare decenni di pessime figure. Era persino iniziato il percorso di riqualificazione della figura del vecchio presidente Corrado Ferlaino.
L'illusione del ridimensionamento è stata forte. Sembrava fatta. Prima Mazzarri, poi Calzona, decimo posto, niente Europa, il Bologna che va in Champions, l'Atalanta che alza l'Europa League. Le gerarchie del calcio sono cambiate, dicevano.
A un certo punto persino il destino del Bari è entrato nel cuore dei napoletani. Mancava poco scattasse il gemellaggio tra due tifoserie rivali da sempre. Una stagione di speranze, illusioni. Di rivincite.
Raccontare (bene) il Napoli non conviene a nessuno
Ogni scudetto vinto da Inter, Milan e Juventus è un'occasione di crescita mancata per il movimento calcistico italiano, in termini di immagine e anche di redistribuzione economica. Un buco nero in cui viene ingottito denaro e passione, a discapito di piazze e realtà sociali che potrebbero dare nuova energia a un movimento che fa della conservazione dello status quo la propria mission.
Dal 2001 a oggi, solo il Napoli è riuscito nell'impresa di sottrarre un titolo nazionale al clan delle strisce. Un successo pagato carissimo dal presidente Aurelio De Laurentiis che, nonostante un potere contrattuale acquisito, non è riuscito a resistere alla concorrenza della FIGC (per Spalletti) e della Juventus (per Giuntoli).
Raccontare bene il Napoli non conviene. Gli esempi virtuosi, in un sistema malato, vanno isolati e messi in discussione. Soprattutto se si sviluppano al Sud. Ma, nel caso del club di De Laurentiis, è lo stesso Sud a ribellarsi all'idea che si possano ottenere risultati esaltanti percorrendo strade diverse dall'insostenibilità economica che inevitabilmente sfocia in danze finanziarie acrobatiche ai confini della legalità.
Se, dopo venti anni di gestione, si è arrivati allo status di unico club in Italia capace di permettersi Antonio Conte, nonostante la mancata Champions, allora questo presidente megalomane non deve essere così insopportabile: "Antipatico perché vinco? Non è un problema mio".