Ore 22:45 circa. Da qualche secondo Nico Gonzalez ha segnato il gol dell’1-3 che segna il finale di Napoli-Fiorentina. E l’intera nazione napoletana sembra avvolta da una nuvola di tristezza, in una bossanova di impotenza consapevole e perciò ancor più malinconica.

Troppi elementi raccontano il fallimento di questa gestione: non è più solo una sensazione, ma incontrovertibile realtà fenomenica quella per cui il Napoli non stia bene in campo. Non sappia letteralmente cosa fare, quando alzarsi o abbassarsi, quando uscire e rompere la linea e quando invece non farlo; quando pressare e quando aspettare a centrocampo. Non sa se giocare corto o lungo, se alzare i ritmi o abbassarsi; non riesce, poi, a fare più di 20 secondi di possesso consapevole (che è una mia definizione per scindere il giropalla sterile da quello che muove gli avversari).

Insomma, il campo, che nel calcio -viva Dio- è il giudice sovrano, ci consegna francamente il peggior Napoli dell’era De Laurentiis; molto peggio del peggior Napoli di Gattuso, che almeno si scontrava con la cocciutaggine di un giuoco elementare e scolastico. Molto peggio del Napoli di Ancelotti, disequilibrato verso una fluidità che, in ogni caso, portava a costruire per ogni partita almeno 4/5 occasioni da rete nitide.

Se vogliamo, questo Napoli se la gioca con quello improvvisato da Donadoni, giunto all’epilogo della stagione rejana e figlio anche di una congiuntura storica poco favorevole, che fu rivoltata come un calzino dal subentrante Mazzarri.

Per il resto, se non bastasse lo spettacolo di insipienza tecnica in campo, devo dire ben nascosto, in un miracolo illusionista di pregevole fattura, nel trittico che ha preceduto la sconfitta contro la Fiorentina, ad arricchire questo succulento piatto di nulla mischiato col niente, l’assoluta superficialità delle dichiarazioni a corredo delle prestazioni. La costante tendenza a scaricare la responsabilità sui suoi calciatori, che è evidentemente un tratto della sua leadership (?), è direttamente proporzionale alla plateale povertà intellettuale delle sue riflessioni; dobbiamo attaccare meglio, dobbiamo fare più falli, dobbiamo fare più gol, dobbiamo essere più cattivi.

E ovviamente dobbiamo metterci più CAZZIMMA, l’argomento di chi è alla canna del gas.

Francamente, il pendolo tra genio ed impostore con il quale ho dovuto far ben presto i conti nel giudicare il lavoro di Garcia ha preso oramai un andamento asintotico verso il secondo polo. Sembra la prima stagione di Ted Lasso, anche se sembra davvero impossibile cercare qualcosa in cui credere.

Ora, a me sembra evidente che, ad ogni latitudine, la platea degli osservatori abbia identificato la patologia di questa squadra moribonda nell’ardore e, conseguentemente, triste nell’espressione calcistica: i problemi sono lì, diventa anche lapalissiano ripeterli continuamente.

La palla passa a colui che di questa operazione è stato artefice.

De Laurentiis deve farsi carico dei propri errori: è stato un presidente illuminato. Ha costruito un gioiello, ha ristabilito le gerarchie del calcio e dell’impresa. Ha creato un prodotto industriale dal nulla e lo ha portato al vertice del proprio segmento di mercato.

Ma una grande azienda, una realtà così importante, di fronte al depauperamento del proprio patrimonio tecnico, reputazionale, più banalmente sportivo, deve porsi un tema di accountability: deve, cioè, essere puntuale e preciso nell’identificare i processi che si dimostrano fallaci e, di conseguenza, deve neutralizzarne la catena di contagio, ponendo fine prima di subito all’effetto doppler che può pregiudicare non solo il ramo sportivo, ma anche quello finanziario.

Garcia è un allenatore esonerato, nei fatti, da una squadra che oramai non solo non crede in ciò che fa; ma che, ed è quello che appare unendo i puntini, non sa nemmeno esattamente cosa fa e soprattutto perché lo fa. Una squadra che in dieci partite ha subito gli avversari, il più delle volte nominalmente più deboli, più di quanto abbia provato ad imporre il proprio tasso tecnico. Una squadra che sembra osservare inerme un destino che non ha contribuito nemmeno a costruire. E che, è una sensazione, aspetti solo una scossa per poter tornare a divertirsi.