Un Napoli debole ed a tratti squallido, si lascia seviziare tatticamente dalla Viola del giovane allenatore Vincenzo Italiano, che affonda nel garrese halloweeniano della squadra di Garcia con imbarazzante agevolezza inghippando ogni reparto, dove i padroni di casa risultano incapaci di far la voce grossa perdendo la partita e le certezze di un anno intero.

Di seguito il lascito amaro che la partita del Maradona, contro la bestia nera Fiorentina, mescola giudizi a sentenze.

  1. “Meritiamo di più”

"Non è normale quello che è successo" dice Garcia a mente lucida nella pancia dello stadio e della normalità nelle sconfitte del Napoli ovviamente non vi è mai traccia.

Forse è l'infamità delle scelte drastiche e la severità del destino a tracciare la via maestra del cambiamento di guida tecnica in questa narrazione piena di buchi neri che vede il Napoli paradossalmente essere la squadra più in difficoltà del campionato avendo lo scudetto cucito addosso. 

La metamorfosi involutiva a cui il mister francese ha assoggettato la squadra, plausibilmente senza neanche darsene contezza, è uno smacco in piena regola alla transizione positiva che la squadra e il club, superata la propria dimensione di sfavorita ed esonerata la sfera populista che l'aveva sempre qualificata, trovava nell'amore della gente il modo per massimizzare tutti i propri sforzi nella ricerca del miglioramento e nella strenua resistenza alla difficoltà, caratteristiche sempre riconosciute ed apprezzate dalla gente. 

Napoli - Fiorentina ci mostra invece un aspetto cupo di un gruppo di giocatori ritenuti imprescindibili, di una gestione tecnico-tattica catalogabile come scriteriata e d’un principio di disaffezione a quelle regole non scritte della qualità dell'impegno dei calciatori, che i tifosi non vedono nella truce controfigura del Napoli attuale.

Quali siano le soluzioni ai problemi spetta chiaramente ai diretti interessati trovarle, per scagionarsi dalla cortina di fumo che aleggia sulle prospettive della squadra in questo momento.

  1. Il Valzer della dissidia

Dicesi ‘dissidia’ secondo la Treccani e lo Zanichelli Contrasto, per lo più fra persone che cooperano allo stesso fine o uniti da altri vincoli esteriori, suscitato da diversità di vedute e di voleri” ed è un significato che pare il sunto con un presagio sinistro di quanto successo nel Napoli negl’ultimi due mesi: calciatori che sbracciano, sbuffano e corrugano, procuratori che polemizzano e minacciano, e tutto il crogiolo di giustificazioni che i diretti interessati esplicitano quasi inermi dinanzi ai microfoni.

Ad oggi la squadra dà in pasto alla critica una specchiata resa di buoni propositi, in cui sta realmente verificandosi una deposizione dell'unità d'intenti, con i calciatori diventati in campo schiavi del risultato più che del gioco, e conseguenze tangibili in termini di lucidità, adrenalina e discomfort che emergono non con la propria qualità ma con la forza della disperazione.

Pertanto immagini anche funeste sui ricordi belli del passato recente, sono un cazzotto negl'occhi di chi era abituato a vedere la squadra vincere e perdere con grande onore, senza andare in confusione da mistica del risultato. Ora i proclami mietono solo le ambizioni di vittoria, il cui vecchio baluginio nell'attuale nebulosità del futuro assomiglia a un grande fallimento, dal quale a fine anno molti degli eroi del tricolore scapperanno, sollevandosi da qualsiasi tipo di responsabilità.

Forse senza lasciarlo trasparire, sin dal principio della nuova stagione, qualcuno dei giocatori più rappresentativi aveva intuito premesse scoraggianti per ripetersi e la sconcertante disabitudine a vincere ne è la cartina al tornasole.

  1. Chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo?

Per quanto sia in questo periodo molto semplice individuare le colpe ed imputare le responsabilità a Garcia e poi ai giocatori a cascata, è un esercizio veramente sillogico abbinare una prestazione scarsa ad un risultato negativo, per accertare i rapporti di causa effetto tra la squadra e l’allenatore.

Lapalissianamente Garcia ha avviato un processo di destrutturazione di meccanismi di gioco, tuttora in fieri, che assomma spregiudicatezza gestionale, falle comunicative e scelte negligenti che a ben vedere sono solo il corollario di una stagione iniziata male; perché se la sconfitta contro la Fiorentina in casa è la goccia che fa traboccare il vaso della rabbia, la sostanza di quanto avvenuto in questi due mesi di calcio giocato, unitamente ad un ritiro precampionato discutibile, è che il Napoli scudettato, arricchito di buoni propositi e rinnovato nelle intenzioni, non è in grado di confermarsi campione d'Italia perché la squadra ha un'espressione di gioco distante anni luce da quella euclidea esibita a larghi tratti nella stagione dei record 22/23. Le motivazioni di tutto ciò sono da ricercarsi in una decodifica dei previsti dettami dell'allenatore da parte dei giocatori, un' ostentata mal sopportazione di alcune dinamiche intestine al gruppo e la buona sorte che non aiuta chi non è audace.

Con la scure di una ventilata cacciata dal proprio ruolo di Garcia e del suo staff a fustigare le scelte sportive ed imprenditoriali della famiglia De Laurentiis, in forte controtendenza con quella consecutio temporum di progetto tecnico a cui nessuno vuole rinunciare a credere, anche dinanzi a un disastro del genere. Come si dice in questi casi, per costruire ci vogliono anni, per distruggere bastano anche 90 minuti e di fatto cambiare guida tecnica ora vorrebbe dire ricominciare un nuovo corso e gettare al vento almeno 18 mesi di lavoro, che tra arrivi e partenze di calciatori, allenatori e direttori sportivi hanno dato al Napoli la possibilità di effettuare un lodevole salto di qualità non solo nei risultati ma anche nell'immaginario collettivo. Deve cambiare la visione Garciana sulla squadra, per restituire ai giocatori lo sguardo fiero e la gioia di giocare, con l'obiettivo minimo di arrivare a dicembre almeno tra le prime 5 in Serie A ed agli ottavi di Champions.

  1. Calcio retrattile

In un microcosmo di pareri anche abbastanza centrati sulla diaspora tattica tra i reparti del Napoli e l'abitudinaria incapacità a giocare il pallone preciso e veloce, si possono trarre tanti spunti per redigere un pamphlet di come non si dovrebbe giocare al calcio per evitare di smascherare limiti mai conosciuti prima e perdere lo spirito di competizione. 

Ciò che ha lasciato in dote la Lectio Magistralis di calcio della Fiorentina contro il Napoli è che il risvolto della medaglia di vedere gli altri giocare meglio di te, tarpa le ali. Per la prima volta dopo tanto tempo il Napoli al cospetto di una squadra sulla carta più debole, è stato sottomesso sul piano tecnico-tattico avvalorando ancor più tutte le tesi di snaturamento di alcuni calciatori nell'impianto di gioco, di bassa frequenza nella fluidità di passaggio, di sfilacciamento ed isolamento di determinati interpreti chiave, difesa scoperta e una coralità francamente inesistente che nel consuntivo dei punti persi per mezzo delle sempre medesime capacità chirurgiche degli avversari (tre tiri in porta tre gol) genera l’idea inequivocabile che questo Napoli ipertrofico, in campo si contrae e ritrae male, va all'attacco a testa bassa senza un concetto di come voler fare gol e non ha più una mentalità vincente, cioè non accetta di poter soffrire perché non sa farlo in blocco ed è spoglio di contenuti offensivi.

Il presagio del pericolo che si ha in campo, vive sempre dietro l'angolo ed è una paura sportiva che, a ragione, sabota anche l'animo belligerante dei tifosi richiedenti a gran voce l'esonero dell'allenatore, consci che il peggio non è passato.

  1. I nodi vengono al pettine

Il Napoli il 4 Maggio vince il campionato dopo 33 anni con uno sforzo immane da parte di tutti. L'allenatore in pectore e il direttore sportivo 'para silurato', si defilano e rimettono ogni decisione sul futuro al quadro dirigenziale, che, imperturbabile, con grandi orecchie da mercante veleggia sulla propria filosofia di pensiero sorretta dalla speranza indomita che l'avvenire sia sempre migliore e la strategia omnicanale per sostentarsi viva sul coinvolgimento dei tifosi in iniziative anche extra-campo, che tocca le corde emotive di buona parte del tifo. 

"Da Napoli verso il mondo" e il nuovo slogan di questa era di talenti generazionali, che il Napoli vuole sfoggiare al pianeta calcio tra passione, folklore, tradizioni e la bellezza del proprio gioco, come fosse un manifesto manieristico delle restaurate ambizioni. In quella giornata di luglio a bordo della MSC per presentare la nuova maglia scudettata, in cui De Laurentiis non retrocedeva di un millimetro rispetto alla veggente animosità per la vittoria di appena dodici mesi prima, che tante iniezioni di buonumore aveva fatto al suo ego, si nascondevano molti semi della discordia mai divenuti del tutto acerbi.

Eppure il malumore silente di chi conosce sufficientemente il calcio era giustificato da una mancata prosecuzione tecnica, disdetta da peccaminosi diktat societari d’inizio campionato, diventata infatti persecuzione.

Dai toni grevi nei commenti agli sguardi malinconici di tutti quelli che, un anno all'improvviso, avevano visto l'impensabile, si stenta a credere che sia tutto finito, così presto. Lo scudetto è stato un vero sogno nel cuore, ma al cuore non si comanda e il contrordine societario di alimentare quel sogno ha mandato squadra e pubblico in balia della spirale degli eventi crudeli anzitempo.

  1. Spettacolarizzazione pre-match VS depressione post-match

La spettacolarizzazione in ambito sportivo e tutti i crismi che assume l’entertainment è un cliché perdurante che dall'America trans-oceanicamente investe tutto il mondo degli eventi, allo scopo di creare atmosfere di grido, coinvolgimenti trasversali del pubblico fisico e virtuale inserendo una buona dose di interazione ad arricchire l'engagement e senso di comunità che a posteriori fa dire “io c'ero”.

Eppure per chi ama il calcio e ne estrinseca la passione pura quasi come ragione di vita, tutto ciò è un vero specchietto per le allodole.

Se è vero che lo sport è il linguaggio più universale che esiste sulla faccia della terra, allora tutta la scena che serve a fornire un’esperienza sensoriale pre-gara ha ben più senso se esercitata in modo coerente ai desiderata dal pubblico da stadio che al Maradona si trova ad ascoltare musica a decibel elevatissimi, vedere coreografie artificiali con giochi di luce, mini concerti o dj-set a bordo campo di artisti meno noti e promozioni di sponsor che determinano un rapporto diegetico ma eccessivamente distanziato con i protagonisti, con l’unico obiettivo di generare entusiasmo per la partita ed accrescere il costo dei tagliandi.

Chiaro che tale entusiasmo deve esaurirsi nella ragione principe dell'evento in sé e non è poi così bello passare dal candore dell'attesa allo sconforto per la prestazione e il risultato della squadra; allora quell'attesa che giustifica il piacere non può essere essa stessa il piacere, bensì solo un modo per strizzare l'amore dei veri tifosi.

Infine, tra i tanti asset economici rientranti nella proposta di evento sportivo, ieri è toccata alla maglia con i teschi di halloween rendere ancor più macabra la serata partenopea.

  1. La miopia da goal

Senza neanche badare alle algide statistiche degli ‘expected goals’, per cogliere l'anti verve da gol del Napoli, basti pensare che Osimhen crea e distrugge occasioni in modo solitario.

Appare anche fin troppo evidente che questa squadra da azione manovrata segni pochi gol, specie nei primi tempi (appena 6 in otto partite), esibisce marcata imprecisione sotto porta, con atavica difficoltà ad inquadrare il bersaglio, figlia d’una frenesia nel buttare la palla dentro e tanto appannamento nell'effettuare la giocata più efficace (e semplice) per il compagno meglio posizionato o in accorrenza.

Una voglia sempre mal ponderata ad esibirsi in qualcosa che va molto al di là di un repertorio tattico canonico, che neanche attecchisce sulle retroguardie avversarie ed in cui gli unici a rimanere tremebondi per le occasioni d'oro sprecate sono gli avanti azzurri, ormai risucchiati nel vortice delle decisioni sbagliate, che non scelgono la rete.

  1. Sguardi persi nel vuoto e vuoto d’idee

È una sensazione spaesante e inquietante vedere i calciatori di maggior talento ed di maggiore incidenza nel gruppo del Napoli, osservare impotenti dall’esterno del campo e con sguardi persi nel vuoto quello che sta succedendo, come scarichi di energie nervose ed incapaci di accettare la realtà.

Immagine già vista nell'aprile del 2022 quando Osimhen e Anguissa ad Empoli dopo un ribaltone clamoroso in campo e una sconfitta 3-2 compromettente per la corsa scudetto, nell'uscire dal campo quasi a braccetto, camminano come avessero un punto interrogativo sopra la testa e guardano perplessi il proprio intorno; ieri si è riproposto lo stesso frame, con i due pietrificati l’uno di fianco all’altro a guardarsi desolatamente innanzi alla delusione dei propri compagni nel cerchio di centrocampo che provano a darsi coraggio per ringraziare il pubblico.

Stavolta il baratro è più profondo di quello che sembrava e per risalire in superficie la squadra è inerte di fronte a questa difficoltà.

  1. I cambi squilibra(n)ti

Lo si era detto con anticipo, si è perseverato nel perorare questa tesi e si è ravvisato in maniera debordante nel flusso illogico delle scelte di Garcia, a cui non dice bene neanche l'adozione del modulo di gioco tipo 4-3-3, con l'ostinazione a non cambiare mai i tre di centrocampo, di cui l’infortunio di Anguissa potrebbe essere una concausa, fino all'ingresso per il camerunense di un Raspadori troppo brutto per essere vero, mai al centro della manovra in uno schema polimorfo che comincia a diventare un cubo di Rubrik che cambia in continuazione non trovando mai neanche una sola faccia di se stesso.

Il Mister passa da una difesa a quattro in linea e poi a tre sfalsati, centrocampo a due a presidio della mediana molto distanti tra loro e all'ora di gioco il centrocampo che diventa a quattro sottopalla e poi di nuovo a tre, Lindstrom e Kvara che sul finire della partita si cambiano due volte di ruolo, centrocampisti schiacciati troppo indietro e senza il riferimento di pressione in avanti, per finire con la sostituzione di Osimhen per il Cholito Simeone che indipendentemente dall’erroneità del doppio attaccante mancato, priva di verve, profondità ed atletismo una squadra che sul finale di gara soccombe alla Fiorentina, fatalmente vittima della propria inabilità a passare il pallone con precisione, denotando un malsana incompatibilità tra il trasferimento di idee di gioco del tecnico con le connaturate caratteristiche dei calciatori, disorientati specie dopo le sostituzioni.

Una debacle in senso stretto di preparazione ed esecuzione dell’allenatore durante tutta la partita.

  1. La disgrazia dei pali

A volte i pali indirizzano il corso della sorte, spesso ti salvano altre volte sono un rumore sordo che rimbomba nella mente, in qualche circostanza sono una grazia del cielo ed in talune altre situazioni un’ineffabile maledizione, in cui pali interni ed esterni si contendono la dicotomia di tiro sbagliato e tiro sfortunato. 

Già il goal di Valverde in Champions con la traversa a suffragare la botta da fuori dell’uruguagio, aveva gettato discredito sull'estremo difensore azzurro. Nella partita del Maradona persa tragicamente, se sul primo palo e poi goal della Fiorentina, Brekalo è lesto a risputare la palla verso la porta con la grandissima complicità di Meret, quello colpito da Ikonè designa solo una maldestra imprecisione dell'esterno Viola e per la prima volta in campionato è benevolo al Napoli.

Si era lamentata la fortuna cieca che mal arrideva ai partenopei nelle gare addietro, ma con i pali colpiti in serie dagl’avversari gigliati, arrivati per far danno in mezza misura, si configura anche la condizione mentale di una squadra che la fortuna non se la va a procurare, pertanto nel computo tra episodi favorevoli e sfavorevoli che si compensano, il Napoli non ha ancora assolto il suo conto con il palo amico che grazia. Il risultato è 3-6 considerando anche la coppa.


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