A Napoli esiste e si consuma quotidianamente una contraddizione apparentemente insanabile. E più passano gli anni più il fenomeno si accentua. Da quando Aurelio De Laurentiis è al timone della società, riavvolgiamo il datario al cinque Settembre 2004, la crescita del marchio è stata esponenziale ed inarrestabile. E sicuramente è destinata a consolidarsi ulteriormente. Ciò che è singolare e che dobbiamo malvolentieri registrare è che vi è una manifesta discrasia percettiva tra quello che è in realtà il Napoli, come viene valutato all'estero, e ciò che è per i tifosi autoctoni. O per meglio dire per una frangia sempre più corposa di supporter che reputa che l'amministrazione della “cosa azzurra” sia deficitaria o quantomeno non idonea a supportare le velleità di un team che è stabilmente ai vertici del calcio italiano e che riesce ad essere con costanza nelle coppe europee.

Ebbene, negli anni abbiamo potuto assistere ad alcune “singolarità”. Piccoli e grandi segnali che danno la cifra della forza dell'ecosistema azzurro. L'ultimo in ordine di tempo e quello che ha visto il noto (non per chi scrive) rapper Drake vestire una tuta del Napoli riferibile all'epoca d'oro di Diego Armando Maradona. Cosa sta a significare questo? Tutto e nulla. Potrebbe essere semplicemente una passione del suddetto artista per i capi vintage; così come potrebbe essere il riconoscimento di un nome e di una società di calcio che stanno facendo così bene da valicare i confini nazionali ed oceanici. Una realtà che fa sorgere quella misteriosa pulsione da cui scaturisce necessità di avere quel determinato capo e di sfoggiarlo, lasciandosi poi immortalare, per avvertire il proprio pubblico di appartenere ad una comunità sportiva e culturale.

L'iniziativa di Drake segue quella di un altro personaggio famoso, anch'egli basato nel Nuovo Continente. Sono note, difatti, le passioni azzurre di Chad Johnson, ex stella del football americano, che ama ostentare le sue simpatie partenopee. Ciò che andrebbe analizzato è perché personaggi provenienti da altre galassie sportive si leghino ad una galassia lontana geograficamente e culturalmente. Questi fenomeni apparentemente marginali sono invece molto importanti poiché indicativi di un'evidenza: quella secondo cui il Napoli Calcio è ormai un brand che funziona a pieno regime. E soprattutto è un marchio riconosciuto a livello internazionale, che viene "masticato" ed assimilato dai cosiddetti influencer che a loro volta condizionano il giudizio e le passioni dei loro seguaci. E non parliamo di numeri marginali, bensì di cifre da capogiro.

Napoli
Il rapper Drake sfoggia la tuta del Napoli durante una sessione di registrazione

Napoli: un marchio globale a supporto di un'espansione inarrestabile

La globalizzazione del contrassegno azzurro non è casuale, è frutto di una politica che la società sta perseguendo con convinzione e perseveranza. Negli ultimi anni lo scouting ha acceso i riflettori su uomini provenienti da mercati calcisticamente floridi, composti da unteti affamati, potenzialmente ricchi nelle capacità di spesa per merchandise e memorabilia relativi al club. Ecco che alcuni ruoli della rosa sono stati coperti con l'acquisizione di calciatori con un seguito fuori dal comune: Lozano in Messico, Kvaratskhelia in Georgia, piuttosto Kim Min-jae in Corea. Queste sono operazioni funzionali anche ad una visione strategico-commerciale ben precisa.

Ancora, l'accordo con Amazon, legame in cui il Napoli è stato apripista assoluto nel mondo del pallone, va letto in questo senso. La capillarità della diffusione del "seller" americano supporta la necessità espressa a più riprese dalla dirigenza di arrivare in ogni angolo del globo. La strategia di chi guida l'impresa calcistica è chiara, evidente, lapalissiana. Ma il virtuoso sentiero, che negli anni si è trasformato in una Highway statunitense, non viene percepito da una fetta della tifoseria che vive e si alimenta dello stereotipo secondo cui la gestione del Napoli sia assimilabile alla classica “bancarella del torrone” tipica delle feste patronali.

Nulla è più falso. Il Napoli è una società visionaria e coraggiosa. E lo ha dimostrato proprio questa estate. Mentre le polemiche infuriavano in una città tappezzata da striscioni volgari, irricevibili e mediamente stupidi (gli autori non si infervorino, pensino piuttosto a vergognarsene), la dirigenza agiva mettendo in atto i piani definiti tempo addietro: svecchiamento della rosa, pensionamento dei senatori, abbassamento del monte ingaggi, acquisizioni di talenti giovani, freschi, incazzati ed affamati. Via le pance piene, dentro gli stomaci leggeri collegati a bocche fameliche. Il tasso tecnico accresciuto a costi ribassati. Con buona pace dei disfattisti di professione che non s'agitano più, smarriti sulla A16 tra Lacedonia e Candela.

La "bancarella del torrone". Un concetto molto caro ai "cantonieri" della A16

Napoli: idee chiare in una strada tracciata puntualmente


De Laurentiis e Giuntoli sono andati avanti per la loro strada sorridendo sardonicamente dinnanzi alla tempesta che montava. Luciano Spalletti, “complice” nel colpo del secolo, a modellare una rosa eterogenea che ora annovera uomini da tutto il mondo che contribuiscono a far conoscere il nome del Napoli. E lo fanno non solo per la provenienza geografica, ma a suon di gol e prestazioni che mettono la franchigia che fu di Maradona e Careca in cima alla classifica della Serie A. La stessa equipe che ruba lo sguardo e chiude un girone di Champions League da urlo. E da record.

Ringiovanimento anagrafico a cui segue un deciso svecchiamento della comunicazione social che è diventata molto più dinamica e funzionale all'idea di globalità che lo staff dirigenziale ha deciso di perseguire con tenacia. La SSC Napoli è una società forte e sana, un aspetto fondamentale in un periodo in cui il calcio italiano è nuovamente sconquassato da potenzialmente devastanti scandali che coinvolgono ancora una volta la Signora torinese (leggi qui) che per qualcuno, evidentemente poco assennato, sarebbe modello da seguire e da adottare pedissequamente per svoltare. Come se uno stadio di proprietà, la quotazione in Borsa e un organigramma da multinazionale fossero l'unico paradigma funzionante e capace di tenere i conti in regola.

In Campania tutt'ora si contesta una gestione familistica dell'azienda. E se pure fosse? Questo modo di amministrare le cose sta incidendo negativamente sugli obiettivi che il Napoli intende rincorrere? Un management accentrato non deve necessariamente essere ritenuto come fattore negativo e destabilizzante. Ciò che invece è condannabile è l'atteggiamento molto provinciale di quella parte di appassionati che considerano un gruppo societario lanciato nell'iperspazio alla stregua di una salumeria di provincia, di una bottega da ciabattino, di un'Ape Piaggio adibita a friggitoria ambulante. Con tutto il dovuto rispetto per chi opera con queste proto-forme aziendali.

A proposito di periferie isolate, la verità è che il Napoli viene visto e immaginato come una realtà quasi inabile ad operare. Ma la prassi stabilisce con evidenza scientifica che non v'è corrispondenza nel vero. Mentre alcuni, quindi, restano impantanati in un sentiero fangoso fatto di preconcetti e falsi miti, il club partenopeo dimostra di essere un soggetto forte, credibile e riconosciuto nel mondo innanzitutto dai concorrenti. Una piazza, quella che sorge alle pendici del Vesuvio, sobillata da certi movimenti che non riescono a razionalizzare e ad essere lucidi. Tifosi dal coito interrotto che perdono tempo e sonno dietro metastorie e conteggi da ragioniere invece di godersi una delle fasi più belle dell'intera epopea del club. Cresciamo. Crescete. Come la nostra amata Enne Napoleonica ha fatto in questi anni.