Napoli Network non intende essere un contenitore di idee, notizie e approfondimenti con una visione unidirezionale su ciò che circonda il Napoli. Si prefigge di diventare la casa della pluralità. I cori che cantano all'unisono, alla lunga, stancano. Preferiamo piuttosto le dissonanze, le voci che sfuggono dalla massa, i controtempi che sorprendono ma che contestualmente attirano l'attenzione. La nostra linea editoriale è non averne una definita, impostata, ingessata. Non saremo mai una testata totalmente filo-societaria o drasticamente arroccata sull'opposta sponda. Proveremo, su questa materia e su tante altre che investono più o meno direttamente la vita del club, ad illuminare l'oggetto delle nostre analisi da diverse fonti col fine di offrire molteplici strumenti interpretativi su una determinata fattispecie. Non troverete, or dunque, monolitiche posizioni frutto di preconcetti. Né ci muoveremo con approccio fideistico restando incatenati a bastioni inscalfibili. E ve ne diamo prova.

“[...] Quindi ha ragione Eden Hazard: i calciatori pensassero a giocare e non lanciare messaggi politici. Tanto non serve a niente”.

Così si chiude un articolo che potete leggere sulle nostre colonne, a questo link: clicca qui. No, il belga non ha ragione. Il suo punto di vista non ha nulla di oggettivo. È un parere come un altro. Rispettabile, ma criticabile. Come l'articolo che questo scritto prova a ribaltare nelle tesi finali.

Calcio
I calciatori della Germania si coprono la bocca in segno di protesta prima della partita d'esordio ai Mondiali di Qatar 2022

La potenza di un gesto simbolico

La foto dei calciatori tedeschi ha un altissimo valore simbolico. E passerà alla storia. Come quella famosissima – e forse abusata nelle citazioni – immortalata in occasione delle Olimpiadi di Messico '68, quando Tommie Smith, John Carlos e Peter Norman, australiano di nascita e bianco di pelle, si ritrovarono sul podio a manifestare per diritti civili elementari negati in uno Stato che troppo tempo ha impiegato per abiurare certe pratiche. Un atto, quello dei tre atleti, coraggioso e che sfidava il pensiero dominante di una società che non riusciva ad affrancarsi da certi stilemi socio-culturali.

Quel terzetto iconico non ha cambiato immediatamente il corso degli eventi, ma ha lanciato un segnale potente, tanto da diventare immagine capace di valicare le ere. E soprattutto ha spiegato al mondo che uno sportivo non è un cyborg, un macchinario amorale, un ammasso di muscoli insenziente e che non può assumere posizioni personali su questioni delicate come possono essere il razzismo, l'inclusione dei deboli o la discriminazione fatta sugli orientamenti sessuali legittimi e sacrosanti di qualsiasi essere umano. Perché la vera questione sta tutta qua: quale legge positiva, quale consuetudine o quale regolamento vieterebbe ad una persona agiata, che provenga dallo sport, dalla musica, dal cinema o da qualsiasi altro ambito, di non esporsi perché non direttamente coinvolta in un determinato fenomeno?

Qualcuno ha parlato di relativismo culturale. Di rispetto di quelle sedimentantesi esperienze storiche che non abbraccerebbero valori tipicamente occidentali. No, non si tratta di esportazione coatta di un modello, ma di tutela di valori universalmente riconosciuti e che esulano da qualsiasi convincimento religioso o da qualunque bagaglio antropologico. Sensibilizzare il mondo sulla mancata tutela di principi basilari del vivere civile non è solo auspicabile, ma è quasi un obbligo. Ed è surreale ritenere che il mondo del calcio debba voltarsi altrove. I giocatori sono delle pedine che hanno libertà limitate. È inverosimile – e forse riduttivo – sostenere che una data nazionale non avrebbe dovuto prendere parte a questo controverso ed irrituale mondiale. Anzi, proprio il partecipare producendosi in gesti e in rituali invisi ad una classe dirigente votata alla censura è esso stesso un atto rivoluzionario e coraggioso che serve a smuovere coscienze e a far parlare di un problema atavico che dovremmo tutti smettere di tollerare. O di considerarlo scontato ed irrisolvibile.

Koulibaly
Kalidou Koulibaly, e difensore del Napoli

La lezione partenopea

Noi figli di Partenope ne sappiamo qualcosa di certe vessazioni verbali e culturali. Quanti cori beceri, quante invocazioni allo Sterminator Vesevo ascoltiamo nostro malgrado? Quante allusioni al colera, all'emergenza rifiuti e ad altri irricevibili luoghi comuni che di domenica in domenica, anche quando gli azzurri non sono impegnati in un determinato palcoscenico, dobbiamo subire nell'indifferenza quasi generale che viene spezzata troppo raramente? E quando ciò accade si ricorre alla grottesca vulgata dei riduzionisti di professione secondo cui vivremmo di un vittimismo d'accatto. Una lecita richiesta di vedere il nostro buon nome tutelato miserabilmente ribaltata in una narrazione che non ci stancheremo mai di condannare. Una pratica, quella di derubricare a lamentazioni certe sacrosante richieste, ormai tipica in un Paese che ricorda d'esser patria solo nel giorno di sbilenche celebrazioni in cui si posano ghirlande tricolore su cenotafi edificati ad arte per creare forzata comunanza di valori forse irreversibilmente divergenti.

Ricorderete di certo l'applauso di Kalidou Koulibaly all'arbitro Mazzoleni, il sempre sciagurato Mazzoleni. L'ex centrale del Napoli perse le staffe a seguito dei reiterati “buuu” razzisti della “Scala del calcio”. Il fischietto orobico non ci pensò due volte a mandare il senegalese sotto la doccia contravvenendo a quel regolamento che gli imponeva di fermare il gioco e sanare l'irripetibile schifo che partiva del pubblico meneghino che, in uno slancio folle tipico delle bestie sovraeccitate, vomitava bassezze sul ragazzone di colore. Quell'applauso, che fosse rivolto all'arbitro, agli astanti o a qualche entità metafisica, è un gesto entrato nell'immaginario collettivo e che ha determinato reazioni veementi. Dell'Inter stessa che sin da subito lanciò l'iniziativa BUU, acronimo di Brother Universally United, e del mondo del calcio mondiale, non nazionale, che parlò del grave episodio riaccendendo i riflettori su una pratica ahinoi non debellata ma sicuramente sempre più sporadica. Ecco a cosa servono i gesti plateali e simbolici: a rendere manifesto ciò che scontato non è e non dovrebbe essere.

Anno domini 2022: se i calciatori di una nazionale sentono il bisogno di coprirsi la bocca o di inginocchiarsi o di restar muti durante un inno nazionale in segno di protesta verso un regime criminale e liberticida, il problema non è di chi scende in campo. Bensì di chi quelle politiche disumane le perpetra ai danni di donne e uomini inermi. Con buona pace di Eden Hazard o di chi ritiene che un player sia un robot programmato per correre dietro ad un pallone per soddisfare il voyeurismo sportivo di milioni di appassionati sparsi per il globo terracqueo. I protagonisti del mondo del pallone, in conclusione, sappiano essere ecisti di alti valori e lodevoli iniziative. Il mondo ne ha bisogno.


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