L'uomo, a differenza degli animali, spesso ha pregiudizi e tende a giudicare gli altri prima di conoscerli, questo lo induce ad assumere atteggiamenti di diffidenza. Estraniazione. Paura. Da queste intolleranze il mondo ha imparato a conoscere un aggettivo dai contenuti forti. Per molti intollerabili: razzismo. Un termine che non ha alcuna base scientifica, ma gli uomini nel corso della storia hanno provato a servirsi della scienza per giustificare forme di discriminazione. Così hanno cominciato a considerare di livello più basso alcuni gruppi umani, come è accaduto ai neri dell'Africa, agli aborigeni australiani e agli indiani d'America che tra il 18º e il 19º secolo sono stati considerati inferiori in base ad una presunta e infondata superiorità della razza bianca.

Il razzismo è la tendenza a manifestare diffidenza e disprezzo per le persone che hanno caratteristiche fisiche e culturali diverse dalle proprie. È colui che pensa che tutto ciò che è troppo differente dal proprio essere lo minacci nella sua tranquillità. È un comportamento istintivo: l'uomo, come gli animali, tende a marcare il suo territorio, la sua terra, i suoi beni e solo con l'intervento della ragione e soprattutto attraverso l'educazione e la cultura impara a vivere insieme e si convince che non è solo al mondo e che esistono vari modi di vivere e culture tutte ugualmente valide. Il razzista, nel momento in cui discrimina le persone diverse, non considera che una società multirazziale è sempre una fonte di arricchimento personale.

L’Italia è un paese razzista? Beh, se proseguiamo con le analogie del mondo animale potremmo dire che lo stesso, preso singolarmente, se ne guarda bene dallo sfidare un avversario di cui non conosce l’identità e la forza. Fa buon viso a cattivo gioco, o ancor peggio manifesta il proprio dissenso con uno sguardo di indifferenza. Quando il branco è in gran numero tende a compattarsi e rendersi un tutt’uno, e per manifestare la propria forza si fionda sulla preda con ferocia e lo azzanna fino a sbranarlo. Siamo un paese completamente razzista? La risposta è sicuramente no, e ci mancherebbe aggiungerei, ma ciò non esula dal fatto che siamo infestati da episodi che ne denunciano la presenza. E quando a provarne imbarazzo è una persona nativa di questa terra che è costretta a subire un livello di pressione tale da indurla a sentirsi fuori luogo equivale ad un fondo di un barile che inizia a raschiare. A Paola Egonu l'hanno rinfacciato più volte, rincarando la dose dopo la sconfitta delle azzurre nella semifinale mondiale di pallavolo femminile contro il Brasile. Un’orda di insulti. Perché se hai il colore della pelle diverso dalla propria vai bene solo se segni e vinci, altrimenti sarai sempre un ospite e in debito verso noi tutti. Il mantra che prima dissimula ma che poi ne esalta l’odio.

Il bello, giusto per usare un eufemismo, è che se Paola racconta il suo disagio e decide di continuare la sua carriera in Turchia è costretta anche a giustificarsi: “Te ne vai da un paese che reputi razzista per approdare nella terra dove i diritti umani sono soppressi”.

Paola Egonu, in base al ragionamento degli stolti, non solo dovrebbe caricarsi il peso di non essere riconosciuta come cittadina del proprio paese ma anche erigersi a paladina della giustizia. Rinnegare il proprio talento rifiutando un top club come il VakifBank Istanbul e mendicare verso club che ne riducano il potenziale. Certo, perché essere neri vuol dire questo no? Sottomettersi per amore della patria anche se la stessa è abituata a rinnegarti. Tutto corretto. Giusto? D’altronde anche noi appassionati di calcio siamo abituati a vedere i nostri paladini nel difendere i propri colleghi presi di mira dall’ira ignorante proveniente dagli spalti. Vero?

Di società calcistiche del mondo professionistico quante ne contiamo che abbiamo intrapreso un percorso di solidarietà su questa tema? Ma questo non conta perché siamo in Italia, nel paese della democrazia e del buon rigore. Giusto no?

Ieri sera Paola ha conferito amore e rispetto per la sua terra, senza alcun diniego verso le proprie radici. Lo ha fatto a discapito di equivoci, perché se nel 2023 una donna di 24 anni manifesta il proprio timore nel mettere al mondo un bambino di colore in un paese che si vanta di preservare lo stato di diritto delle persone, la vicenda assumerà risvolti di sicuro imbarazzanti, ma altrettanto veritieri. Un messaggio che rivolgiamo soprattutto alle istituzioni, le quali anziché banalizzare e nascondersi dietro ai luoghi comuni che il singolo episodio non coinvolge un intero paese (e ci mancherebbe, ndr) - minimizzando il tutto e rispedire al mittente - possano dedicarsi con interesse quotidiano e sposarne la causa, cominciando nei luoghi deputati all'educazione, come la famiglia e la scuola. Sì perché quest’ultima non ha alcuna necessità di istituire un progetto di insegnamento del tiro a segno per imbottire di piombini gli insegnanti, bensì di comprendere com’è possibile che ancora oggi si possa soffermarsi a riflettere sulla scelta del colore del bicchiere per bere dell’acqua di ugual sapore e ugual gusto.