Se è insopportabile la retorica nazionalista che sta attorno alla Nazionale (compresi i discorsi di Spalletti in conferenza stampa sul “popolo” e la presenza fissa del CT ad Atreju che, giova ricordarlo, è una kermesse di un certo segno politico e non un evento istituzionale), allora direi che altrettanto insopportabili sono i commenti a caldo in cui si chiede la testa di calciatori e allenatore. Si pretendono le "scuse", e si schiumano altri commenti da frustrati: tutta robaccia che non fa altro che alimentare la retorica nazionalista di cui sopra.

Forse è per questo che del naufragio dell’Italia in Germania occorre parlarne seriamente, dato che non è stato ancora fatto. È una necessità, perché non può passare sotto traccia l'ennesimo risultato fallimentare dal 2008 in poi. Non possiamo più cullarci nell’episodicità dei risultati pur eccellenti che erano stati raggiunti a Euro 2012, 2016 e 2020. Non c'è più margine per mettere la testa sotto la sabbia, nel momento in cui il CT Spalletti, nel bene e nel male, predica per sé. Ecco, allora, che si impone la necessità di una riflessione a freddo, data l'importanza del tema. Di un ragionamento che non si faccia trascinare dalla foga del momento e che analizzi, retrospettivamente e in maniera distaccata, quanto successo. Anche perché, a distanza di dieci giorni, "il modo [dell'eliminazione] ancor m'offende". Per citare il Poeta.

Italia-Spalletti: un matrimonio destinato a non andare a buon fine (per ora)

La verità è che non c'erano le condizioni per fare bene ed è stato già un mezzo miracolo passare da secondi nel girone con Spagna, Croazia e Albania: non c'entrano, infatti, il calcio moderno o la qualità dei nostri singoli (nonostante alcune scelte nelle convocazioni siano state un po' controintuitive), anche perché, al netto di alcune individualità di grande spessore internazionale, la Svizzera è prevalsa grazie a un gruppo consolidato e a meccanismi di gioco ben rodati. Non erano certamente più forti di noi.

E infatti Spalletti, alla guida della Nazionale da appena un anno, è una figura completamente isolata rispetto al resto del panorama calcistico italiano. Lo era quando ha guidato il Napoli alla conquista dello Scudetto, lo è a maggior ragione oggi, al termine di una stagione che ha sancito la consacrazione definitiva di Gian Piero Gasperini.

Il fenomeno del gasperinismo

E, proprio a proposito del tecnico dell'Atalanta, c'è da dire che è lui ad aver influenzato, da tempo, e in modo quasi totalizzante, il campionato italiano: Tudor, Juric, Palladino e Bocchetti sono solo alcuni dei nomi che recentemente si sono fatti strada in Serie A seguendo i dettami tattici del loro maestro. Se non fai pressing e marcature uomo su uomo a tutto campo, non fai sganciare i braccetti per creare superiorità numerica in fase di possesso, non prepari bene le transizioni e non giochi da esterno a esterno in area avversaria (o, in alternativa, se non sai prendere le contromisure a tutto questo) oggi in A sei spacciato.

La ragione del successo del "gasperinismo", infatti, è principalmente legata al fatto che puntare tutto sull'intensità, ridurre all'osso i compiti dei propri calciatori in fase di non possesso e costringere costantemente gli avversari a giocare spalle alla porta è la strada più semplice ed efficace per mettere in difficoltà le squadre che praticano i principi del calcio posizionale e per diminuire il gap, altrimenti incolmabile, con competitor che hanno molta più qualità.

Indubbiamente si è trattato di una grande rivoluzione tattica, ma questa ha comportato l’impoverimento del nostro campionato e dei suoi giocatori, al punto che oggi facciamo fatica a produrre centrali bravi in marcatura, a difendere in area, a impostare o a fare le diagonali verso l'esterno. È questo uno dei motivi per cui, dopo Chiellini e Bonucci, la famigerata scuola italiana non è riuscita più a far emergere grandi difensori. Ed è questo anche lo scoglio su cui si è schiantato Mancini, che, invece, fino a Euro 2020 aveva saputo beneficiare sapientemente delle innovazioni che Sarri, con la sua affermazione, aveva dato al calcio italiano. Quegli Europei, in altre parole, sono stati il canto del cigno di un ciclo calcistico che si era già concluso.

Rompere il tabù del CT straniero?

Gravina, dunque, prima di scegliere il nuovo CT, avrebbe dovuto riflettere su questo aspetto, avrebbe dovuto chiedersi quale sarebbe stato l’allenatore più adatto a valorizzare il materiale umano a disposizione, possibilmente in linea con le nuove tendenze della Serie A. Indubbiamente anche Spalletti è stato – o, meglio, è tutt’oggi – un grande innovatore, ma la complessità del suo calcio è tale da richiedere ai giocatori di svolgere tanti compiti nell’arco di una singola partita, talvolta persino all’interno di una singola azione. Abbiamo i calciatori per fare questo? Temo di no.

E allora, per tornare al nazionalismo della Nazionale di calcio, forse la mossa più intelligente sarebbe stata quella di rompere finalmente il tabù del CT straniero e scegliere il più talentuoso dei gasperiniani: Igor Tudor. Capisco che per chi pensa che la panchina dell’Italia debba andare per forza a un italiano si tratta di una bestemmia, e capisco anche chi obietterà che Spalletti è un allenatore molto più bravo (indubbiamente è il migliore che abbiamo oggi), ma credo che sicuramente sarebbe stato molto più adatto alla fase attuale.