La prima vera (vittoria) araba. Non è successo sportivo, ma gli somiglia tanto, ed è coerente con la politica di ‘modernizzazione’ del principe Bin Salman: l’Arabia Saudita si è aggiudicata (a man bassa) l’EXPO 2030 per la sua capitale, Riyad. Per la nostra (17 voti a 119) una debacle e una figuraccia. A suon di petrodollari, la conquista continua. L’Arabia Saudita ha già in tasca i Mondiali di calcio del 2034, perché la Fifa, assegnando praticamente a tutti i Paesi candidati quelli del 2030, ha già fatto piazza pulita dei possibili concorrenti.

L’Arabia Saudita punta ad organizzare le Olimpiadi del 2036, e vedremo se Berlino (leggi Germania, leggi Europa) farà la fine di RomaExpo30. Che c’entra l’Esposizione Universale con lo sport? Fanno entrambi parte dello stesso, coerente disegno. Di cui il calcio è un significativo ma non esclusivo tassello. L’Arabia Saudita non è solo CR7, Neymar, Benzema e le altre decine di campioni sbarcati nella Penisola nella pazza estate ’23. Il principe Bin Salman vuole rendere il Paese più autonomo dal petrolio, vuole diversificare una economia quasi totalmente dipendente dagli idrocarburi.

Vuole darsi un futuro. Vuol fare qualcosa di epocale. Perché tutta la ricchezza degli emiri è stata costruita su 100 (e passa) anni di petrolio, l’oro nero su cui Madre Natura li ha seduti. Una fortuna che per forza si esaurirà (secondo gli ultimi studi, attorno al 2070/2080) e che in Occidente si sta iniziando a sostituire (la “transizione green”). Ma se il mondo punta su fonti di energia alternative, l’Arabia non ha altre risorse, tra le dune: quindi deve attrarre investimenti da fuori. Per la svolta, insomma, occorre ripulire l’immagine del Paese.

Quindi: 1. Obiettivo economico: attrarre capitali esteri; 2. Obiettivo politica regionale: costruire un “soft power” col calcio e con lo sport in generale, diventando un modello per gli altri Paesi arabi, sorpassando Emirati Arabi e Qatar che si sono mossi prima; 3. I giovani: oltre il 60% dei sauditi ha meno di 30 anni. Anche investendo nei divertimenti si costruisce consenso, per un popolo “moderno”, più legato alla corona che ai leader religiosi.

Il fattore sport può aiutare (e molto) a coagulare consenso. Non solo calcio. L’esempio da guardare è il Golf: due anni fa i Sauditi sono entrati nel business (la Ryder Cup, che a ottobre si è svolta a Tivoli, è il quarto evento più seguito al mondo dopo Olimpiadi estive, mondiale di calcio e mondiale di rugby); hanno creato un ‘circuito alternativo’ a quello degli americani (la famosa PGA TOUR); la scorsa primavera i due circuiti si sono fusi, in pratica gli americani hanno venduto il loro agli arabi. Che stanno provando a bussare anche alla porta della Formula 1 (Liberty Media, per ora, resiste) e del tennis (ATP, per ora, resiste). Per quanto resisteranno, chissà. Una cosa è certa. Laddove non sono riusciti i cinesi, potrebbero riuscire gli arabi. Perché? “Perché in Cina i bambini non giocano a calcio”, mi dice un guru. Ma su questo, magari, torneremo.

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