Il 28 marzo del 1993, quindi la bellezza di 30 anni fa, in Serie A esordiva Francesco Totti.
L'allora allenatore della Roma, Vujadin Boskov, lo fece entrare nei minuti finali di Brescia - Roma, su risultato acquisito da parte dei giallorossi (0 - 2).
In generale, sono circa una trentina i ragazzi ancora giovanissimi ad aver esordito nella massima serie italiana. Ma nessuno quando il risultato di quella specifica partita fosse ancora in bilico, o più in generale, quando si stava lottando per un traguardo importante.

Ieri sera, invece, sempre in Europa, precisamente in Spagna, l'allenatore dei blaugrana Xavi (criticato senza motivo apparente) ha fatto esordire un ragazzo del 2006, Marc Guiu, al minuto 79 della sfida contro l'Athletic di Bilbao. Gara fondamentale per i catalani che devono restare necessariamente aggrappati al Real Madrid capolista, per non vedersi scippato, già un anno dopo, l'etichetta di campioni di Spagna.

Un minuto dopo il suo ingresso in campo, arriva il vantaggio del Barcellona. Un trionfo di competenza, di conoscenza ma soprattutto di coraggio. Quello che manca al movimento calcistico nostrano, incapace di guardare al futuro perché gestito da incompetenti cronici.

Ma cosa trattiene un allenatore dal non far esordire validi ragazzi che ammuffiscono in panchina? Totale mancanza di talento? È possibile che, negli ultimi 30 anni, solo Totti e Pirlo hanno fatto una carriera mostruosa tra quelli che hanno da giovanissimi esordito in A? (Ci sarebbe anche Donnarumma, ma quell'esordio fu più una necessità del momento che altro).

Più nello specifico, cosa si sarebbe detto di Rudi Garcia se, in Napoli - Fiorentina, al posto di Anguissa avesse fatto esordire un 17enne della primavera anziché Raspadori? E se il Napoli, come poi avvenuto, avesse perso la partita? Non osiamo minimamente immaginare.

Al netto del talento e delle infrastrutture, è palesemente anche un problema culturale. Di 50 milioni e passa di allenatori che ogni santo giorno propinano le loro idee dimenticandosi quello che è il loro vero motivo: essere tifosi. In una società, quella italiana, dove manca l'equilibrio in tutto e che è pronta sempre a mettere in pubblica piazza persone solo per il gusto di farlo, il calcio non è una eccezione, purtroppo.

E tutto si riduce inevitabilmente al coraggio. Quello che fa fare tutta la differenza del mondo. Quello che ti fa brillare gli occhi e pompare il cuore quando vedi che un ragazzo che può essere nostro fratello minore, un nostro figlio, un nostro nipote, segnare e raggiungere l'obiettivo di una vita, risultato di anni e anni di sacrifici.

Da decenni in Serie A non si vede un Guiu, da decenni non si racconta una storia così. Da un decennio questo campionato è in caduta libera senza che ci sia nessuno a sorreggerlo. E si vede, oltre alle disfatte mondiali, anche e soprattutto per le offerte al ribasso delle TV. Non ci sono storie da raccontare, non esiste interesse.
Ma ci sarebbero, in realtà, volontari per sorreggere questo ormai sciagurato movimento calcistico italiano. E hanno una specifica collocazione temporale: i giovani.

Nella politica, nello sport. Quindi nel calcio.
Lasciamo lavorare i giovani, diamogli la possibilità di sbagliare. Diamo anche a chi li gestisce la stessa possibilità, senza condannarli. Vedremo che non avranno paura. E senza la paura si possono scalare montagne molto, molto alte.
La vittoria è bella, bellissima. Ma non è vero che tutto ciò che non è vittoria è per forza sconfitta o fallimento.
Il tifoso faccia il tifoso, "perché di calcio capisce poco" sosteneva Kolarov.