La vita del calciatore deve essere per forza di cose molto belle. Soldi, lusso, barche, donne, auto veloci, hotel di lusso, viaggi. E vizi, tanti vizi. E, oltre tutto questo, il lavoro che la maggior parte dei ragazzini sognano. Prime pagine di giornali da eroi contemporanei, protagonisti di un mondo che - per i più talentuosi - può trasformarti in un vero e proprio mito. Nessun lavoro al mondo è così tremendamente appagante. Inoltre, statisticamente parlando, a 34-35 anni si va in "pensione". Da giovanissimi, in pratica.
Privilegi totali che i comuni mortali mai vedranno nella vita.

Dal divano di casa, dai bar sport che si trovano in ogni dove, o dalle gradinate di uno stadio, noi semplici tifosi di questo bellissimo sport ci sentiamo in diritto di giudicare ogni cosa e ogni minimo dettaglio che fa parte delle loro vite. Il motivo è semplice: il loro guadagno.

Se un ragazzo, perché a quell'età di ragazzi si tratta, spesso anche in tenera età, guadagna fior di milioni di euro ogni anno, è giusto che debba subire critiche ed ingiurie ad ogni minimo errore? Si è sempre lì, col dito puntato a commentare, urlare, sbraitare ad ogni mezzo passo falso. Come fossero robot. Automi privi di sentimenti. Sì, perché un calciatore professionista, anche se milionario, vive di sentimenti nello stesso modo in cui le vive chi scrive e chi legge.

Anche loro vivono momenti di tensione familiari, che possono culminare in divorzi, in litigi, in separazioni, in allontanamenti. Anche in quel mondo dorato può succedere che vedi i tuoi figli una volta al mese se ti viene bene. Anche in quei contesti tanto invidiati c'è l'amico che tradisce. E non tutto si può risolvere con il denaro. Perché anche i calciatori vivono di fallimenti, di gioie e dolori. Con preoccupazioni, ansie e paure.
Perché puoi avere tutti i soldi del mondo ma certo non puoi comprare tutto ciò che vorresti fosse in vendita o che semplicemente possa avere un prezzo da pagare. Seppur esorbitante.

Soprattutto se il cotanto vil denaro così tanto citato in questi mesi non è sufficiente ad impedire la perdita di un affetto caro
come è capitato a Stanislav Lobotka.
Il regista del Napoli settimana scorsa ha perso il padre a cui era legatissimo. Così, all'improvviso, senza averne sentore. Il calciatore slovacco aveva, come usanza comune per i riti funebri, anche l'autorizzazione della federazione per poter abbandonare il ritiro della propria nazionale, invece Lobotka è andato in Slovacchia per l'ultimo saluto all'amato papà e subito dopo ha fatto ritorno in nazionale, dove ha disputato le due gare, da titolare, valide per le qualificazioni alla fase finale degli europei di calcio del 2024. Tutto questo, con un lutto devastante nel cuore e nella mente.
Un esempio di grande professionalità e senso di dovere, di rispetto verso i propri compagni e alla propria patria. Un gesto, quello di Lobotka, stranamente sottovalutato dai molti ma da esempio per tutte le generazioni di ragazzi che non solo hanno il sogno di diventare calciatore, ma a tutte quelle categorie di persone che sognano una crescita prima personale e poi professionale nel mondo del lavoro.
Il calcio vive anche di questi esempi. In un mondo dove l'ago della bilancia pende sempre più spesso verso le negatività e i cattivi esempi ma che vive anche di gesti come quello di Lobotka e di tanti altri.
Il tutto non andrebbe sottovalutato, anzi, bisognerebbe sottolinearlo, affinché questi ragazzi che corrono dietro ad un pallone non vengano sempre visti solo ed esclusivamente come dei bimbi viziati ricoperti di soldi.
Lobotka ha dimostrato che è sempre errato fare di tutta l'erba un fascio.
Esempi come il play azzurro producono amore per questo sport, a differenza invece di quelli che cercano solo il contratto della vita per egoismo personale e che altro non fanno che allontanare la passione delle folle dal calcio.