Aiuto! Aiuto! Una minaccia sta scuotendo le fondamenta del calcio europeo e rischia di compromettere definitivamente il futuro di questo sport: i petrodollari dell’Arabia. L’invasore musulmano è qui e ha iniziato a prelevare i nostri imberbi giovani nelle case corrompendo le loro anime. Ora, infatti, è passato a mettere gli occhi sui ragazzi più talentuosi, i fiori più belli che erano pronti a sbocciare in un continente dove il football è ancora un fenomeno puro, romantico, pulito. Come, in genere, non si vede più al giorno d’oggi.

Arabi, diabolici corruttori

Scongiurato il yellow peril pallonaro grazie al fatto che la bolla cinese si è sgonfiata, adesso sono tornati alla carica gli arabi e lo hanno fatto nella maniera più feroce che mai. Ormai non gli basta più fare da RSA per pensionati d’oro come Cristiano Ronaldo, no: si accaparrano fenomeni che hanno ancora qualcosa da dare come Benzema, Mané, Kanté, Koulibaly, Firmino e Mahrez o calciatori ancora nel pieno della carriera come Brozovic, Neymar, Milinkovic-Savic, Fabinho, Kessie e Saint-Maximin. Persino Jordan Henderson, noto testimonial dei diritti LGBTQI+, è andato a giocare da quegli omofobi dell’Al-Ettifaq. Una cosa inaccettabile per il tifo del Vecchio Continente perché vuol dire che alla fine anche il più giusto, il più puro dei nostri, ha ceduto alla tentazione dell’infedele. D’altronde, il rainbow washing è valido solo se prendi soldi dai miscredenti, mentre, si sa, le proprietà europee brillano per il progressismo dei legami che hanno alle spalle e delle idee e dei progetti che mettono in campo.

Ma, come dicevamo in apertura, ciò che ha scatenato l’ondata di panico è che adesso i movimenti di mercato verso Riyad e dintorni stanno cominciando a coinvolgere anche i nostri talenti. Non ci sono solo, infatti, l’ex Celtic Jota o il promettente Bamba – uno dei giovani italiani più interessanti, accasatosi però in Qatar –, che hanno deciso di sacrificare le loro carriere sull’altare maledetto del denaro sporco di sangue e petrolio, ma anche Gabri Veiga: una vicenda a dir poco shockante perché il 21enne spagnolo ha addirittura preferito l’Al-Ahli al Napoli, club campione d’Italia che ha ambizioni di affermarsi pure in ambito continentale.

Ma chi sono questi diabolici inferiori? Come si permettono di non accontentarsi più delle ingombranti cariatidi provenienti dalle big europee? Figuratevi, poi, che il fondo sovrano PIF ha acquistato quattro dei principali club della Saudi Pro League: c’è la politica dietro, sai che giro di affari sporchi... E poi cosa spinge un giovane di belle speranze a mettere una pietra sopra il proprio futuro in cambio di soldi? È la fine del calcio. Non c’è altro da dire. Peccato che Ruben Neves, nazionale portoghese comprato dall’Al-Hilal versando 55 milioni nelle casse del Wolverhampton, lo abbia spiegato bene: “[Voglio] dare alla mia famiglia la vita che ho sempre sognato per loro: questo è stato per me il motivo principale che non mi ha fatto avere dubbi nell'accettare questa proposta. Ho tre figli e una moglie. Prendermi cura di loro è il mio trofeo più grande”.

Verso una nuova geografia del calcio?

Insomma, c’è chi sogna di vincere la Champions League col Barcellona o il Real Madrid e chi invece preferisce guadagnare 25 milioni di euro l’anno per dare stabilità ai propri cari per generazioni. Sono due modi diversi di “arrivare” ed è giusto che dei lavoratori, dei professionisti quali sono i calciatori, decidano di farlo imboccando la seconda strada. È un concetto ovvio, ce ne rendiamo conto, ma tocca ribadirlo di fronte ad una stampa il cui compito in questa estate è stato solo quello di agitare il pubblico con toni allarmistici.

Questo, insomma, può sicuramente aver fatto la differenza nella scelta di Gabri Veiga (al netto di tutti i retroscena legati all’atteggiamento del Napoli e alle mosse dell’agente Pini Zahavi), fermo restando che a 21 anni il giocatore ha tutto il tempo per incassare vagonate di milioni nella penisola arabica per poi tornare in Europa tra qualche stagione – come insegna, tra l’altro, il caso Carrasco. Ammesso e non concesso, però, che la Saudi Pro League non diventi effettivamente un campionato competitivo e di alto livello in cui i fuoriclasse scelgono di giocare al di là di qualsiasi discorso di carattere economico. E, forse, è questo quello che spaventa inconsciamente il football europeo: perdere l’esclusiva del grande calcio, pensare che al di fuori dei confini continentali non ci sia più futuro per questo sport, laddove invece nel resto del mondo si stanno affermando dei movimenti nazionali anche piuttosto interessanti (si pensi, ad esempio, a Marocco, Canada e Stati Uniti).

D’altronde, per nessuno era un problema quando Mansour comprava il Manchester City, la Qatar Investment Authority il Psg e il PIF – sì proprio quel fondo – acquistava il Newcastle. Perché tanto loro investivano qui, mica pensavano a rubare i nostri talenti per far divertire quegli incivili dei musulmani, che fino a poco fa ignoravano totalmente cosa fosse un pallone? Scrive bene Marco Giordano su X: “Ovviamente, siamo nel periodo storico del sovranismo da 180 caratteri. Tutto questo non fa che alimentare l'incapacità di fare analisi”. Forse, dunque, noi europei dovremmo accettare che sta cambiando la geografia del calcio. E una prima, plastica dimostrazione l’abbiamo avuta durante gli scorsi Mondiali, quando abbiamo visto per la prima volta grandi aristocratiche soccombere sotto i colpi di nazionali che fino a poco fa avremmo considerato (alla buona) esotiche. Ecco, quello che è accaduto sui campi del Qatar è solo uno dei risultati degli scossoni che stanno modificando profondamente il calcio internazionale – e chissà a quali altri cambiamenti assisteremo nel prossimo futuro.

Per i più distratti, infatti, è in atto da tempo una guerra tra FIFA e UEFA per la rivoluzione di competizioni e calendari che, ormai sempre più saturi, non possono contenere alla lunga stravolgimenti che provengono tanto dalla massima organizzazione mondiale del calcio quanto dalle federazioni continentali. Ed ecco che dal canto suo Gianni Infantino è andato dritto per la sua strada con la riforma dei Mondiali per club e per nazionali, le cui prossime edizioni saranno ospitate entrambe dall’Arabia Saudita. Basta tirare le somme, quindi, per capire come l’Asian Football Confederation e Riyad siano schierate al fianco di Infantino nella lotta contro Ceferin. Con una particolare attenzione, però, da parte del Paese retto da re Salman: nell’ambito della strategia Saudi Vision 2030 – che mira a diversificare l’economia araba rispetto al peso eccessivo che ha l’industria petrolifera – lo sport è ritenuto un canale fondamentale per attrarre il turismo internazionale e sviluppare servizi legati alle grandi kermesse globali. C’è, dunque, un gioco di interessi reciproci che ha spinto l’Arabia e la FIFA ad avvicinarsi l’una all’altra con tutto il carico di trasformazioni che sono sotto i nostri occhi.

Di fronte a tutto questo, dunque, invocare i vecchi equilibri o rimpiangere il progetto (per il momento) fallito della Superlega, chiudendosi nei propri pregiudizi razzisti, serve a poco. Senza indulgere in visioni esotiste che in questo caso sono fuori luogo, forse sarebbe più utile accettare che l’egemonia europea nel mondo del pallone sta iniziando ad incrinarsi. E questo non vuol dire di certo che sta per finire calcio, anzi. Tanto, mal che vada, ci abboniamo tutti a Sportitalia.