I commenti social che fanno notizia sono la fine del giornalismo sportivo. Per quanto violenti e disumani possano essere, rappresentano niente. Non descrivono il disagio sociale di un popolo, non sono un punto di riferimento della società civile. Insomma non sono una notizia.

È come se ogni mattina un cronista entrasse in un qualsiasi peggior bar di quartiere e riportasse su carta i dialoghi tra sciroccati ubriachi e ignoranti.

I commenti social possono rappresentare notizia solo se a farli sono personaggi di rilevanza pubblica. Per il resto valgono meno di zero.

Chi li riporta sbaglia tecnicamente a fare il proprio mestiere. Perché non è capace a riconoscere quello che va scritto e quello che va ignorato.

La portata mediatica dedicata agli insulti rivolti alla famiglia di Theo Hernandez è spaventosa almeno quanto le frasi abominevoli prodotte da quei quattro profili fake sotto a un suo post. La generalizzazione a tifosi del Napoli è colpevole, diffamatoria.

In un'Italia che nasconde la testa sotto la polvere ogni volta che un episodio di razzismo pubblico mortifica il senso dello sport di questo paese, producendo un'immagine reale quanto deleteria per la nostra percezione all'estero, si spellano però i polpastrelli per riportare offese partite dalla cameretta di un pakinaples93 qualsiasi.

L'obiettivo non è fare notizia, ma dimostrare quanto i napoletani siano inadeguati a palcoscenici lussuosi come quelli di un quarto di Champions League.

È indicativo di quanto il sentimento anti partenopeo sia radicato e che tutti, ma proprio tutti, abbiano sentito la pulsione di cavalcare lo scoop: giornalisti nazionali, testate come la Gazzetta, calciatori, club. Tutti miracolosamente sensibili al tema. Ammalati di indignazione a intermittenza.

Riportare come scoop una non notizia del genere ha un retrogusto razzista. Inutile nascondersi. Non ricordiamo la portata enorme di articoli o Tweet vip di solidarietà per le offese dei milanisti a Chalanoglu, reo di essere passato all'Inter; non ricordiamo le offese rivolte al figlio di Berardi, reo di avere un padre che aveva appena strapazzato il Milan a San Siro; neanche quelle juventine al figlio di Bonucci all'epoca del passaggio ai rossoneri; men che meno quelle a respiro nazionale rivolte a Insigne, quando la moglie perse il bambino.

Ancora una volta, e non sarà l'ultima, abbiamo avuto la dimostrazione di quanto Napoli sia raccontata male, volutamente male. Per una manica di fetenti, che albergano ovunque, ma a quanto pare, fanno notizia solo quando abitano nella città più anti conformista d'Italia.