"E non so dove Dio sia, se ricoperto di diossina"

Kid Yugi, Ilva (Fume Scure RMX)

Procrastinare non è una forma di pigrizia. È un complesso meccanismo psicologico che il nostro cervello spiaccica tumultuosamente sui nervi onde evitare l'ansia. E noi amiamo far finta di non vedere i problemi: io e voi, intendo, proprio come genere umano, come suprema specie dominante.

Con ogni probabilità, quando porteremo allo sfinimento questo pianeta, strapperemo con netto distacco il record di specie dominante meno duratura del pianeta. Con un distacco che, a me, riporta alla mente due episodi ben chiari e singolari.

  • Quando capii che la fatina dei denti era particolarmente facoltosa, beh, per lei allungare due leggeri placebo in carta di fila per la caduta dei dentini non doveva essere un problema. Con la brillante idea di staccarmi un premolare forse leggermente traballante, decisi di abbandonare la mensa scolastica e "toglierne metà con le manine" . L'altra metà cadde, sì, con due anni di distacco dalla prima. Ma ero soddisfatto, anche quando a casa mia madre tentò di spiegarmi che la fatina dei denti non fosse una specie di Reddito di Cittadinanza. Tanto erano solo soldini, sai quanto c'avrebbe messo a farli piovere nella sua casetta fatata?
  • Quando il Napoli era primo in classifica.

Nella mia memoria a spazi sovrapponibili, i due ricordi si posizionano sulla stessa lunghezza d'onda.

L'anno scorso, a quest'ora, vivevo la stessa vita? Ne vivevo un'altra di cui porto i segni tangibili? E quella che vivo adesso, può considerarsi vita dinanzi a certe sensazioni?

Una boccata d'aria fresca mi trascina tra lo spazio e il tempo. Tanto fresca che è come se l'odore della plastica bruciata non dominasse le timide iniziative d'una primavera che mai fiorirà.

La Settimana Santa

Ma perché ho preso il vizio di cominciare ogni sottotitolo con una citazione? Ormai senza trovare la giusta citazione non riesco a produrre.

"E adesso aspetterò domani per avere nostalgia"

Fabrizio De André, Se ti tagliassero a pezzetti.

Il cielo era azzurro, d'un azzurro penetrante, anche in provincia. Lì, o meglio, qui, talvolta accade che l'abbondanza di grigio violi anche l'azzurro del cielo, lo sventri sino a svilirlo del tutto e d'un tratto guardare verso il cielo diventa come guardare in basso.

Era un po' che faceva caldissimo, più o meno da novembre e questa volta non c'entrano la diossina e l'effetto serra: c'entrano tanti, tantissimi cuori che cominciarono a vibrare in sintonia, capaci di spostare la Terra verso il Sole ad ogni suo tentativo di compiere il solito moto di rivoluzione, ogni settimana un tantino più vicini. La tachicardia divenne bradicardia, l'inverno fu il più caldo inverno di sempre, gli occhi cominciarono a sentire le immagini e le orecchie cominciarono a contare i decibel delle voci commosse, ogni settimana un tantino di più. Mai le due facce d'ognuna delle monete sensibili che chiamiamo emozioni furono più vicine alla fusione assoluta.

Soprattutto, Napoli stava annichilendo tutte le prime pagine. Non solo quelle de "i soliti napoletani". Già, perché quelli di solito finiscono sui giornalacci di cronaca spicciola, mentre gli altri da sempre finiscono negli annali.

La paura, come farne a meno, riusciva comunque ad occupare uno spazio di tutto rispetto e che ci vuoi fare, alla fine quella è l'emozione che c'accompagna alla nascita e alla morte, è alfa e omega, è Raspadori contro lo Spezia e Raspadori contro la Juventus. E fu il simbolo di quella Settimana Santa all'insegna della bradicardia.

L'inseguitrice più vicina, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe dovuto recuperare 13 punti in 9 partite. Era follia, ma lo era tutto ciò che aleggiava in quei frangenti: la lugubre follia che smantella ciò che lei soltanto avrebbe potuto immaginare.

Tredici, come gli infiniti minuti che intercorsero tra il pareggio salentino e l'autogol che ristabilì il vantaggio partenopeo, bolla d'aria per chi affogava nel mare d'ingenuità infantile del sogno.

Due a uno per il Napoli. Spalletti non sospira più.

Naufragar m’è dolce in questo mare

Di lì a poco l'aria logorata dalla diossina cominciò ad ardere di fumogeni, di lacrime al benzene: piange fuoco chi ottiene il riscatto, chi ce l'ha fatta nonostante tutto e chi pensa a coloro che c'han lasciato prima del delirio assoluto. E nessun fiore lasciò mai la brezza di quei fumogeni, nessuna poesia fece più rumore dei fuochi d'artificio che si protrassero sino allo sfinimento, benché sulla carta di natura altamente dannosa per l'organismo.

Perché alla fine era lo stesso concetto dell'amore: a poco a poco t'avveleni, ma naufraghi dolcemente.